Luigi D’Alessio, procuratore di Locri, iscritto a Magistratura Democratica, è finito nel mirino dopo la sentenza di condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace.
“Sono vittima di un’aggressione mediatica. Amareggiato ma sereno con la coscienza. Non ho agito con intento persecutorio” assicura in un’intervista rilasciata a La Stampa, commentando le polemiche su “un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili”. D’Alessio si rende conto che “13 anni sono parecchi e mi auguro che in appello sia ridotta”.
Il magistrato riconosce a Mimmo Lucano “una mirabile idea di accoglienza”, ma gli contesta di averla “riservata a pochi eletti che avevano occupato le case”. A dispetto della norma che prevedeva un avvicendamento periodico dei migranti, “lui manteneva sempre gli stessi, sottomessi. Gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno”. Benché incassasse i fondi destinati ai corsi obbligatori di italiano, “non c’era un migrante che lo parlava” e “gli alloggi destinati ai migranti venivano abitati dai cantanti invitati per i festival”.
“Tutto era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali”, ecco spiegato il motivo della condanna per associazione a delinquere, oltre che di Lucano, di altre dieci persone. “Nessuno ne parla, ma si trattava di una corte celeste di accoliti che campava così e di cui lo stesso Lucano era per certi versi anche vittima”. Lucano non si è arricchito, tuttavia “c’erano abbondanti somme distratte. Soprattutto ai migranti, che erano vittime dei reati di Lucano e non certo beneficiari. Questo è il grande equivoco da cui la sinistra non riesce a liberarsi”.
A D’Alessio, Lucano ricorda il protagonista di un celebre western di Sergio Leone, “il bandito di Giù la testa proclamato capo dei rivoluzionari suo malgrado. Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti, forse guidato da altre persone. Ha pensato di abbinare un’idea nobile a una sorta di promozione personale e sociale. Non è Messina Denaro, ma ha inteso male il suo ruolo di sindaco, proclamando ‘io me ne infischio delle leggi’ e ostentando una scarsa sensibilità istituzionale tradotta in una serie impressionante di reati. Riace è un Comune dissestato”.