«Dopo lo scioglimento delle Camere Draghi e Guerini (ministro della difesa, PD) hanno varato acquisti di armamenti per 7 miliardi di euro».
Lo ha scritto Alessandro Di Battista in un post su Facebook.
«Vi consiglio di approfondire il tema. C’è un bel pezzo di Franco Bechis al riguardo pubblicato oggi su Verità & Affari. Sette miliardi. Una montagna di soldi. Vi ricordo che l’Italia investe nelle università pubbliche 7 miliardi di euro all’anno. Lo stesso denaro speso in armi con decreti varati dai “migliori” dal 25 luglio ad oggi. Oltretutto, cito il pezzo “a beneficiarne saranno industrie americane, israeliane e in qualche caso anche nazionali”. “Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!” disse alcuni mesi fa Papa Francesco», prosegue il post.
«Da mesi sostengo che l’invio di armi in Ucraina e soprattutto l’aver abbandonato immediatamente qualsiasi tentativo diplomatico da parte di governi succubi degli Stati Uniti, avesse un grande obiettivo: far digerire alle pubbliche opinioni una nuova, enorme, corsa al riarmo. Oltretutto a vantaggio di multinazionali che spesso e volentieri neppure sono europee. Nei prossimi anni, dunque, assisteremo a quello stesso fenomeno descritto da Assange rispetto alla guerra in Afghanistan quando disse che l’obiettivo non era una guerra di successo ma una guerra duratura. Ovvero il passaggio di denari provenienti dalle nostre tasse direttamente nelle mani delle transnazionali degli armamenti.
Un dramma per noi cittadini. Una garanzia di sopravvivenza politica per quei politici che quando Washington parla sanno solo dire signorsì», conclude.
Tra i commenti al post di Di Battista, si legge quello di Nicola Morra: «Se l’industria bellica non viene riconvertita, per generare utili dovrà vendere quanto produce. Ergo, dovrà indurre guerre, perché le armi devono essere usate, consumate e rimpiazzate. È logica. E le forze politiche che governano i paesi sono sempre avvicinate da lobbisti che fanno gli interessi di questa produzione. Quando non sono gli stessi politici, attraverso prestanome, ad essere direttamente coinvolti negli assetti societari di queste corporations», osserva il senatore.